Una città immaginaria al MAXXI

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African Metropolis, dal 22 giugno al 4 novembre 2018

Nella mostra African Metropolis. Una città immaginaria, non si parla di un continente ma del mondo, fisico e immaginario. I 34 artisti con le loro 100 opere attraverso le loro riflessioni raccontano e spiegano la metropoli e l’Africa. Non si parla di città fatta di architetture ma di un’alternanza di immagini e immaginari.

La mostra propone 5 azioni metropolitane: vagando, appartenendo, riconoscendo, immaginando e ricostruendo per una metropoli fisica e mentale con le sue 100 opere che creano un percorso tra fotografia, installazioni, sculture, tessuti e video sulle realtà africane e sul mondo.

La Melandri, presidente della Fondazione Museo Maxxi ha tenuto a dire che “l’immagine, la percezione, la conoscenza dell’Africa nel nostro recinto occidentale sono per lo più un campionario di stereotipi e caricature di processi storici profondi, spesso poco noti… L’Africa per i nostri occhi distratti è sinonimo di fame, di endemico sottosviluppo, di regimi autoritari e tribali, di un’emigrazione fuori controllo in fuga dalla miseria, dalle persecuzioni e dalla fame”.

La mostra è formata da lavori che ricreano lo spazio cittadino. Tra questi le gigantesche installazioni di Bili Bidjocka con una “Time Tower” che si rifà alla torre di Babele e al Faro di Alessandria. Segue il “Labyrinth” di Youssef Limond che parla di un edificio collassato su sé stesso. Quindi “Le Salon BIbliotheque” di Hassan Hajjaj che è uno spazio di una libreria marocchina dove si riposa, si conversa e si legge. Città descritta per chi la abita e dunque ci sono opere come “Behind this Ambiguity” (2015/2018) di Adbulrazaq Awofeso con 120 statuine come una folla che esce dalla metropolitana. Poi ci sono opere come “566 protected area” e “768 no posters “(2016) di Onyjs Martin simili ad affissioni e scritte sui muri della città.

Tra le opere esposte alcune foto di Franck Abd-Bakar Fanny “My nigths are Brighter than your Days “(2016) sul vagare di notte nella città dell’artista. Quindi segue l’opera “Symphonie urbaine” (2017/2018) di Lucas Gabriel opera sonora in due lingue che si trova in quattro aree della mostra dove è la città che parla con i suoni di molte città.

Ci sono nella mostra immagini che si alternano tra case sospese a testa in giù come le “Falling house” (2014) di Pascale Marthine Tayon e i tessuti di Abdoulaye Konatè “Caleo” (2016) e “Alep” (2017) simbolo di memoria. Poi l’installazione monumentale di El Anatsui “Stressed world” (2011) con rame riciclato.

C’è l’opera “Boureau d’echange” (2014) di Meschac Gaba che denuncia come le materie prime che sono risorse naturali siano divenuti prodotti di speculazioni. O anche “world disorder II” (2017) di Paul Onditi con interrogativi su casi politici, sociali, economici a livello locale e mondiale. Ci sono anche i vestiti di Lamine Bodian Kouyatè (Xuly Bet) che si trovano sulla piazza del museo come in vetrina e rappresentano la mondanità africana.

Per finire ci sono le fotografie di Mimi Chorono Ng’ok con il vissuto dell’artista e le esperienze, o quelle di Sarah Waiswa che in “Ballet in kibura” (2017) rappresenta bambini di periferia che fanno una lezione di danza classica.

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