Intervista a Ludovico Buldini

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“I fiori del nuovo mondo” è uno spettacolo che andrà in scena al Teatro Tor Bella Monaca il 14/15/16 aprile.

esclusivaRegia e drammaturgia di Ludovico Buldini

Aiuto regia Dorinda Caccioppo

Interpreti:
Moreno Agostinelli, Ludovico Buldini, Diego Frisina

Pasternak e Jeno aspettano una barca in un porto desolato. All’ orizzonte, una tempesta. Un vecchio gli annuncia che il Diluvio Universale sta per sommergere la terra. Solo se lo seguiranno nella sua iniziazione potranno salvarsi e accedere al Nuovo Mondo.

Sotto la guida di un pazzo illuminato, i due affrontano il mare di macerie da cui è sommersa la loro amicizia, mentre il vero mare in tempesta gli si abbatte contro. Da una lotta in cui l’apocalisse diventa qualcosa di personale, nascono “i fiori del nuovo mondo”, i fiori della loro nuova consapevolezza. L’utopia e il mito sono la cartina tornasole per vedere la realtà, la miccia per far esplodere i meccanismi sotterranei dei rapporti e portare a una loro evoluzione. Ma può l’uomo tenere fede alla guida di valori superiori fuori dalla minaccia della fine del mondo?

Facciamo due chiacchiere con Ludovico

Chi o cosa sono i fiori del nuovo mondo?

I fiori del nuovo mondo sono ciò che nasce dalla fine del mondo. Di qualsiasi mondo, che sia il mondo particolare di una persona o il mondo vero e proprio, non c’è mai una vera e propria fine, dalle macerie esce sempre qualcosa. La parola fiore sembra per forza alludere a qualcosa di bello e luminoso. Qui vorrei lasciare che il pubblico decida se sia davvero così.

Chi o cosa rappresentano questi tre individui?

I due amici rappresentano due parti inscindibili. Sono due personalità opposte diventate nel tempo complementari. Questo gli impedisce di mettere a nudo la ferita che ha preso spazio nel loro legame. Il terzo individuo è una guida fuori dal tempo e dallo spazio, eppure necessaria per portare i due a fare i conti fino in fondo con ciò che non riescono a vedere.

Sembra si parli di un viaggio nella spiritualità, nella purificazione, nell’ espiazione… Sei credente?

Nella mia vita di credente mi sono fermato prima della cresima. Non l’ho fatta perché avrei voluto parlare più a fondo delle questioni legate alla fede e alle scritture, che mi hanno sempre affascinato, ma nella confusione delle lezioni non si riusciva mai a prendere niente sul serio. Scrivere questo testo è stata l’occasione per studiare e pormi domande su questi temi in autonomia, è stato un rigurgito della mia educazione cattolica, forse un modo per riappropriarmene. Il testo è nato anche in un momento di grande frattura nella mia vita privata. Di fronte al dolore e alla necessità di trovare un senso nel rimettere in ordine i pezzi, la voce che pretendeva armonia assoluta e bene universale era diventata una presenza invadente. Nel testo ho voluto metterla alla prova. Vedere se era in grado di avere davvero uno spazio nell’esperienza. Quello che mi è parso di capire scrivendo è che se questa voce ha qualcosa da dire, non riguarda tanto la sua capacità di concretizzarsi in toto come utopia, come paradiso in terra, quanto quella di metterci di fronte a valori assoluti contro cui scontrare le nostre convinzioni, le nostre giustificazioni, le nostre bugie, le nostre pretese. Una volta che queste sono cadute a terra impotenti, ci rimane solo fare i conti con quello che siamo senza più nulla che ci distragga o protegga. Credo che questo processo sia utile e, anche se a volte mi trovo ad attribuirgli un valore spirituale, non mi sento ancora arrivato a nessuna conclusione.

Il racconto è nato in seguito a qualche tua esperienza personale?

Il racconto nasce una mattina di tre anni fa. Mi sveglio e resto a letto per un po’. Nel dormiveglia vedo due uomini, uno smilzo e l’altro grosso, che aspettano qualcosa in un porto pieno di nebbia e di corde vecchie e grosse a terra. Li sento parlare. Uno si accende una sigaretta. Sono stanchi. Mi alzo, vado a portare giù i cani. Passeggiando continuo a farli parlare nella mia testa. Quello che dicono mi diverte. Quando torno a casa scrivo su un foglio le cose che gli ho sentito dire. Poi penso che ci sia bisogno di qualcuno che arrivi sul molo a scombinare l’equilibrio. Mi viene in mente un vecchio completamente stralunato che sente un contatto immediato e puro con tutto il creato. Parla un linguaggio poetico fatto di immagini criptiche e dice che tutto è stato sommerso dall’acqua. I due lo prendono in giro all’inizio, ma poi iniziano a credergli. Mi chiedo come si potrebbero chiamare i personaggi. Il primo lo chiamo Pasternak perché mi dà l’idea di qualcosa di pesante. Il secondo lo chiamo Jeno perché mi sembra qualcosa di leggero e scattante. Il terzo lo chiamo Vecchio. L’ immagine nella sua composizione mi colpisce. Quella mattina è venuto Diego (oggi interprete di Jeno) a casa mia. Gli leggo le sei pagine che avevo scritto, lui dice “è una roba”.

In quale dei tre personaggi ti identifichi?

In nessuno dei tre per intero. Per alcune parti in tutti e tre.

E allora perché hai scelto proprio di interpretare Pasternak?

Ci possono essere diversi motivi. Il primo è perché Pasternak è un personaggio molto autoritario. Questo mi rende più semplice passare dal ruolo di attore a quello di regista. Posso continuare a dirigere gli attori e le altre cose da fare restando nei suoi panni. Poi perché mi interessava esplorare la parte di me che tende a schiacciare chi ha intorno per affermare sé stesso. È qualcosa di cui provo vergogna. Per questo penso sia interessante portarla all’estremo in scena per poterla contemplare. Poi volevo fare un personaggio fisico, pesante, non intellettuale.

buldiniIl viaggio si tramuta in una ricerca della spiritualità… Vuoi dare un’occasione all’umanità attraverso questi personaggi?

Non l’occasione di abbracciare un credo. Anzi lo spettacolo resta aperto su questo punto. Quello che mi interessa è il dialogo delle parti, non le risposte che si danno. Quello che mi interessava era di aderire e credere a tutti e tre i punti di vista senza doverne far prevalere uno sugli altri. Questo testo nasce anche dalla mia personale insofferenza nei confronti delle persone che tentano in tutti i modi di dirti cosa è bene e cosa è male per te o per l’umanità. È importante riuscire ad ammettere dentro di sé le varie parti, tirarle fuori, contemplarle e rimetterle al posto che ad ognuno sembra più giusto, ma senza reprimerle in partenza perché ci spaventano o ci fanno stare male. Questo è quello che ho provato a fare in fase di scrittura e quello che sto facendo ora nella messa in scena dello spettacolo e di me stesso.

Mi parli della regia? Degli effetti scenici? Come riproduci la tempesta?

Per la regia sono andato nella direzione dell’essenzialità più assoluta. In scena ci saranno solo due valigie e un telo blu. La tempesta verrà azionata direttamente dai personaggi in una coreografia. A supporto dei movimenti ci saranno anche delle sonorità elettroniche. Il lavoro che ho fatto con Marco Fiore (Jena Club e Reclame) è stato di tradurre i suoni naturali in suoni elettronici. Mi interessava poter restituire un’idea di natura come reimmaginata in una astrazione sintetica.

Perché oltre a scrivere la sceneggiatura interpreti anche un ruolo? Chi sono e perché hai scelto Moreno e Diego?

Penso che per me sia fondamentale anche interpretare i personaggi che scrivo. Mi mancherebbe qualcosa se non lo facessi. Sento che quando si tratta di mettere in scena quello che ho scritto, lo voglio sentire anche nel mio corpo e non lasciarlo esclusivamente nella mia fantasia o in quello che posso vedere dall’esterno. Diego e Moreno sono due persone con cui lavoro molto bene. Moreno che interpreterà “Vecchio” credo sia una maschera comica naturale che riesce a restituire l’assurdità di un essere calato nel mondo da un altro pianeta. Questo di lui mi affascina e per questo lo trovo perfetto per il personaggio. Diego non devo sceglierlo, lavoro sempre con lui. Ci capiamo al volo e portiamo avanti una ricerca nel campo della rappresentazione in un continuo scambio di idee. È un attore molto malleabile e poliedrico che si può permettere una vasta gamma di interpretazioni. Come io per Pasternak mi sono dovuto scontrare con la mia ombra crudele e oppressiva, lui per Jeno ha dovuto fare i conti con la sua parte insicura e debole. Quando ho scelto i ruoli sapevo che lui avrebbe avuto il coraggio di metterla in gioco senza paura.

Perché uno spettatore non deve mancare al tuo spettacolo? Come pensi che il pubblico risponda alla tua proposta? Cosa vuoi trasmettere alla platea? Cosa speri per il tuo spettacolo?

Penso che questo spettacolo sia estremamente personale e nasca sì dalla mia scrittura, ma nella sua concreta messa in scena dalla collaborazione di tre persone che non hanno paura di rendersi la vita difficile e che non vogliono annoiarsi da soli, ma vogliono esplorare fino in fondo le possibilità che un testo del genere mette a disposizione. Chi verrà ci troverà pronti ad offrire il nostro essere in una ricerca in cui ognuno può trovare il suo spazio.

Progetti futuri?

Andare in campagna per qualche giorno.

Ludovico Buldini

Dopo due anni di studi di Fisica, capisce di essere più interessato alle materie umanistiche. Lascia la facoltà e inizia un percorso di studi in Letteratura Musica e Spettacolo alla Sapienza di Roma che porta a termine con il massimo dei voti con una tesi sulla “Salomè” di Carmelo Bene. Durante l’università scrive, dirige e interpreta due cortometraggi, che decide però di non pubblicare. Per perfezionare le sue abilità di scrittore, regista e attore, segue diversi corsi e seminari. L’esperienza a “Teatro Azione” gli fa scoprire il mondo della recitazione e del teatro e lo spinge a partecipare a due laboratori di scrittura, nei quali conosce Eleonora Danco e Letizia Russo. Inoltre segue un corso annuale di regia cinematografica nella scuola “Tracce”, dove si confronta con professionisti del settore.

Durante la pandemia realizza una breve serie casalinga in tre puntate che pubblica su Facebook, “L’ultimo uomo sulla terra”. È dell’ultima fase di questo periodo di formazione il cortometraggio indipendente “Giorni da funamboli” (premio del pubblico al Capri Movie International Festival), il suo primo lavoro cinematografico professionale. La sua attività di regista continua con la messa in scena di “Dio non parla svedese” di e con Diego Frisina, presentato al Campania Teatro Festival 2021, e di I fiori del nuovo mondo, spettacolo di cui è anche scrittore e interprete. Attualmente ha 27 anni e vive a Roma nella casa dove è cresciuto.

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