“I Mohamed”

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TEATROVID-19 Il teatro ai tempi del Corona e oltre

Teatro Villa Lazzaroni

Scritto e diretto da Yaser Mohamed.

Con Patrizia Casagrande, Alessandro Cremona e Alessandro Marverti.

Scene di Paolo Carbone, adattamento scenico di Sabrina Biagioli.

Il Teatro di Villa Lazzaroni è una struttura moderna, accogliente. Sorge al centro della villa omonima ed offre una serie di spettacoli interessanti, tra cui quello di stasera.

Ho conosciuto Yaser dopo averlo visto in “Che disastro di commedia”; eccezionale, comico, spiritoso, estroso, poi l’ho rivisto in “Dracula”, in “Luci della ribalta” e ancora in “Che disastro di Peter Pan”… insomma, un attore, un artista, un comico nato. Mi è difficile immaginare qualcun’altro interpretare i suoi ruoli, tanto è caratteristico, personale ed originale. Devo dire, però, che non mi aspettavo assolutamente una proposta come quella di stasera, da lui; distante anni luce da quello Yaser che ho conosciuto.

Ci propone uno spettacolo ostico, difficile, ermetico, che “arriva dopo”, certo non per tutti, che ha tempi di metabolizzazione lunghi. Poi, piano piano, “arriva” e lascia il segno, ci si rende conto solo dopo della genialità del lavoro.

La sceneggiatura parla proprio di Yaser, ma lui non è sul palco per svelarsi e raccontarsi. Al suo posto sceglie Alessandro Marverti, compagno di ventura e collega in molti spettacoli; bravo, grintoso, evidentemente Yaser lo sceglie per interpretarsi, conoscendo bene le potenzialità di questo ragazzo. Sa che attraverso lui può dare voce alla parte più profonda di sé stesso per essere efficacemente e degnamente rappresentato.

Yaser racconta una storia ispirandosi alla sua famiglia e, mettendosi a nudo, ci svela l’altra parte del suo carattere e della sua vita, quella che non conosciamo e che si rivela più introspettiva, ermetica, nascosta. È la parte che contiene il difficile rapporto con i genitori, soprattutto con suo padre, un egiziano emigrato in Italia, uomo tutto d’un pezzo, rigido, austero dal quale evidentemente Yaser ha ereditato qualcosa, ma al contempo ha voluto anche distaccarsi rifiutando i suoi modi e i suoi approcci nelle relazioni. Silenzioso, distratto, lontano, quest’uomo in casa parla solo la sua lingua.

Un grande Alessandro Cremona lo interpreta parlando grammelot, un arabo inventato ma molto realistico. Legge il giornale, guarda la televisione, aspetta di essere servito e riverito ma è assente, inconsistente, congelato, così come la moglie. Lei, però, si è adattata, ci appare palesemente succube, robotica, quasi autistica, spenta e forse depressa. Fuma in continuazione, nevroticamente e si esprime a monosillabi, anzi con una sola parola che ripete in un eterno loop.

È chiaramente schiacciata da quest’uomo che non sembra essere cattivo; tutt’altro, semplicemente non sa relazionarsi emotivamente. La moglie, allora, per “sopravvivere” in questa realtà si anestetizza, apparendoci come un automa senz’anima. Mi chiedo come abbia potuto sposare quest’ uomo. Evidentemente, nel profondo, anche lui nasconde una certa sensibilità.

L’unico momento d’incontro tra i due sembra arrivare quando piegano insieme un lenzuolo matrimoniale, ma mentre lo fanno notiamo quanto questo sia esageratamente lungo, troppo. Anche il Lenzuolo, insomma, finisce per rappresentare una distanza nel matrimonio, quella nello stesso talamo. Ogni volta che lui si avvicina a lei per ripiegare la stoffa, con disattenzione ci sale sopra sporcandolo, ma l’avvicinamento alla moglie è anche l’unica occasione per darle quello che sembra un affettuoso bacio sulla guancia. Poi, tutto ritorna come prima.

Un altro attimo di serenità si verifica quando i due entrano, all’inizio dello spettacolo, sorridenti ed apparentemente felici, abbracciando un manichino che muovono come fosse una persona in carne ed ossa… Rappresenta la verità nascosta? O è il loro figlio con le sembianze di un fantoccio svuotato di vitalità? Con il fantoccio salutano gioiosi dei passanti virtuali, ma piano piano cominciano entrambi a manifestare stanchezza, tristezza… Dunque era solo apparenza?

Il giovane Yaser durante la storia cerca di parlare con loro, di metterli a conoscenza di aver scoperto il loro segreto, cioè di avere una sorella. Questo lo fa vivere colmo di sensi di colpa e di risentimento, pur non essendo colpevole del silenzio dei genitori. Perché loro hanno scelto lui e non lei? Se lo chiede, ma inutilmente. Schiacciato da questa modalità coercitiva che impera nella casa, da questa educazione distorta, oppresso, intimidito cerca di liberarsene, di scrollarsi di dosso questo fardello, ma sembra proprio non riuscirci.

Forse questo spettacolo è un veicolo nelle mani di Yaser per parlare liberamente con loro? Una sorta di terapia psicologica? Finalmente, ormai adulto, ha trovato il mezzo per conferire con loro? D’altronde, lo spettacolo è un terreno dove Yaser sa di avere tutto sotto controllo, dov’è padrone, dove si sente a casa, sicuro. Dunque forse lo utilizza per cercare di abbattere quel muro per colmare il baratro che sembra senza fine e rompere la freddezza emotiva. È un modo tutto personale per esternare il suo amore, per cercare di riscattare quello che non ha ricevuto in gioventù, ma è anche un modo per dirgli che se oggi è l’uomo che è, lo deve a lui, a loro.

Lo spettacolo diventa così un modo per esorcizzare questo amaro ricordo della sua adolescenza e per staccarsi definitivamente da quell’atmosfera pesante che riesce a ricreare sul palco, monotona, lenta, soffocante, fatta di attimi interminabili carichi di attesa.

Alessandro e Patrizia parlano con i loro non detti, sono molto espressivi e riescono ad infondere una sensazione di oppressione nella sala. I discorsi di Alessandro figlio sono beckettiani, ereditati dal teatro dell’assurdo; si fa difficoltà a seguirlo, ma sono utili a comprendere sia il disagio del personaggio, sia la caratura di questo artista. Stessa cosa per ciò che riguarda il padre e la madre (Patrizia Casagrande), che sono come due statue, due icone dell’incomunicabilità.

Strano; Yaser, al contrario, è affabile, disponibile, simpatico, estroverso, esplosivo. È riuscito, nonostante tutto, ad evadere da questa gabbia virtuale ed invisibile di alessitimia e nella sua vita ha messo in primo piano il rapporto umano empatico con le persone.

Alle spalle scorrono, per tutto lo spettacolo, le immagini delle Olimpiadi del 1936 (mentre dei rapidi flash fanno apparire il logo del programma “Chi l’ha visto”…), con Hitler che spera di affermare il nazismo e la supremazia della razza ariana attraverso lo strumento della propaganda. Ma a vincere, è un uomo di colore, il grande Jesse Owen che otterrà ben quattro medaglie d’oro…

Ho riflettuto molto sul perché di queste immagini, che spesso il padre si gira a guardare. È una rappresentazione tirannico – dispotica del padre sulla famiglia? E Yaser è il Jesse Owen che sfugge dalle maglie di questo programma? La scheggia impazzita, l’imprevisto?

La scenografia scarna ed essenziale è di concezione innovativa: la mobilia pende paurosamente su un lato, è estremamente inclinata. Tutto ciò che ci si appoggia (oggetti di uso familiare, il parallelismo è piuttosto chiaro) è in un equilibrio precario, forse come l’animo di Yaser e di tutta la famiglia. Yaser vuole liberarsi da questa spirale, da questa regola non detta, reclamando il sui desiderio di un rapporto, di un legame profondo, di poter sentire finalmente l’ affetto che gli è mancato e di condividerlo.

È proprio attraverso quei discorsi paradossali del giovane che si evince la difficoltà di comunicazione ereditata. Alessandro – Yaser, allora, attraverso degli espedienti simbolici cercherà la forza per operare un cambiamento: una cravatta o un servizio elegante di piatti usato solitamente in circostanze speciali. Attraverso questi cercherà la spinta per utilizzarli come rompighiaccio, per annunciare che è in arrivo qualcosa di grande e destabilizzante da comunicare…

Alla fine, dopo un bellissimo, intenso e lungo monologo del figlio (che però i genitori assenti non ascolteranno), quando questi lascerà la scena, dopo quello che pare uno sfogo, finalmente ci sarà una reazione.

Il padre, che aveva finora farfugliato una lingua incomprensibile, parlerà in italiano e lascerà spazio alla moglie che si profonderà in un intenso monologo, recitato magistralmente da Patrizia. Finalmente insieme, come una coppia unita, siederanno su una poltrona rimasta isolata dal resto dei mobili per tutto lo spettacolo e mai usata. Questo accessorio d’arredo è di uno stile più antico, stona e stride con gli altri mobili e ricorda le poltrone della casa dei nostri nonni. Una poltrona vissuta, legata ai ricordi dell’infanzia.

Più calda, consumata e familiare, sulla quale i due daranno vita finalmente ad un bel quadretto perdendo quella formalità e rigidità iniziali; da lì riveleranno apertamente quanto siano fieri del figlio… Finalmente…

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