“Amara”

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TEATROVID-19 (l’energia e la forza del teatro)

Teatro Garbatella
Di David Mastinu

Stefano Ambrogi, Nadia Rinaldi, Martina Zuccarello, Germana Cifani, Michele Capuano.

Si, non sbagliate, è la seconda volta che assisto a questo spettacolo. Perché? Perché è semplicemente un capolavoro di David Mastinu, giovane attore e sceneggiatore dalla penna d’oro. Sensibile e profondo, scava in una realtà ormai forse dimenticata dalle generazioni odierne. Io ricordo ancora le baracche sparse per la periferia di Roma dove vivevano gli ultimi reietti, i falliti di quella società ereditata dal dopoguerra. Immigrati del sud giunti qui con speranze di una vita migliore, o povere e numerose famiglie romane senza lavoro o senza casa in attesa di quella popolare.

Un’esistenza vissuta alla giornata, fatta di espedienti, dal futuro incerto, o forse proprio senza un futuro. Allora non c’erano gli extracomunitari, c’erano i calabresi, i siciliani… allora non c’era la droga, chi avrebbe potuto permettersela? era l’alcol a lenire le giornate di stenti e le frustrazioni degli uomini, sbiaditi capifamiglia su cui pesava il fallimento per non essere stati in grado di dare ai loro cari una stabilità. Allora si rubacchiava, si rimediava qualcosa qua e là da mangiare o da vestire, i più volenterosi facevano piccoli lavori sfruttati e sottopagati quando capitava, alcune donne si prostituivano… Una realtà che abbiamo conosciuto edulcorata tra una risata e l’altra grazie ai film neorealisti di Totò, Fabrizi e Manfredi, che interpretavano alcuni di questi invisibili esorcizzando la tristezza di quelle esistenze con una forte ironia.

Ed è proprio questo che racconta David attraverso lo stesso grandioso cast che vidi la passata stagione. Insieme riescono, con una sublime interpretazione, a materializzare questa storia su un palco avvalendosi di un’ efficace, realistica ed attenta scenografia. Baracca, frasche, fili per i panni usurati, stesi ad asciugare per giorni a causa dell’umidità del vicino fiume, che sventolano mossi da una lieve brezza che li accarezza; sdruciti e rattoppati, devono continuare a resistere per vestire quei poveri diavoli.

Ancora non asciugati, già sono ricoperti da quella polvere che ricopre le strade sterrate di accesso alle abitazioni fatiscenti in cui le persone residenti raccontano storie tristi e tutte uguali. Non hanno forse più speranza, che ormai qui è solo di passaggio e si affaccia di tanto in tanto strizzando un occhio a queste anime, non si sa se per infondergli fiducia o per schernirle. Ormai la speranza neanche l’avvertono più, l’hanno dimenticata, cancellata dai loro vocabolari e dalla mente perché essendo tutti analfabeti quel vocabolario lo hanno arso in un barile arrugginito che funge da stufa per scaldarsi d’inverno.

Ho saputo con grande piacere che il mio articolo sullo spettacolo passato è stato apprezzato da tutto il cast e dalla produzione perché attraverso il mio scritto questi fantastici attori hanno avuto la conferma di aver trasmesso il vero senso della storia, facendo breccia nel cuore degli spettatori. Io ho solo messo su carta tutto quel turbinio di emozioni che loro hanno saputo esprimere su quel palco e che mi hanno avvolto, affascinato, colpito nel profondo. Credo di essermi fatto portavoce del pubblico, d’accordo con me che questo era un capolavoro. Questi artisti hanno riprodotto quelle sensazioni di degrado, di annichilimento dell’essere umano ridotto a poco più di un ratto che vive vicino ad un fiume che puzza di stantio e che, se si sta attenti, sembra invadere la sala. Ho avuto la sensazione di sentire quell’odore insieme a quello della legna ardente in quegli ambienti umidi che ha intriso i vestiti di chi tentava rassegnato di riscaldarsi nell’inverno romano del dopoguerra. Una guerra finita per gli Stati, ma che continuava per questi esseri umani che combattevano contro il freddo, la fame, i topi, la povertà. Una battaglia quotidiana per cercare di conservare la dignità, quella che spetterebbe ad ogni essere umano.

I romani benestanti o in una situazione più agiata si tenevano a distanza da quegli ammassi di lamiere ondulate incastrate a tavole e pezzi di mobili. Qui non veniva nessuno, forse qualche prete, qualche buon dottore e lui, Pierpaolo Pasolini ancora imberbe, giovane, delizioso, sensibile, ancora sconosciuto. David lo inserisce in questo dramma e lo fa vivere e parlare attraverso il capace Michele Capuano.

È interessato a conoscere le storie per poterle scrivere e farle conoscere al mondo distratto ed insensibile. Lui si sporca le scarpe dello stesso fango di queste bidonville e lo fa con poesia delicata, sfiorando il palco, quasi come una presenza eterea. Ancora non è il Pasolini che conosceremo, David lo immagina e ce lo propone come un timido e delicato ragazzo pieno di passione ancora da indirizzare, che stravolgerà in seguito la cultura italiana e appassionerà il mondo con la sua cultura, il suo spessore e la sua profondità. Entra bussando delicatamente alla porta che si affaccia su un mondo distante dal suo, ma che imparerà a conoscere e ci accompagnerà timidamente come un moderno Virgilio in questo inferno reale, tangibile, tristemente vero, facendoci conoscere le storie di una famiglia.

Nadia impersona una di queste disperate, è brava e orgogliosa donna dal gran cuore che adotta una ragazza orfana claudicante, ignorante, ma buona come lei, impersonata da una toccante Martina. Accogliendo, cerca di farle vivere, se non una vita dignitosa, quantomeno un’esistenza di attenzioni ed amore di cui il suo cuore straborda, un amore che dovrebbe ricevere dal brutto e cattivo marito di cui Stefano veste i panni.

Un uomo che forse in un’altra realtà sarebbe stato anche una brava persona, ma che qui si è adattato, si è fatto vincere dalle circostanze e a dispetto della moglie ha perso dignità e orgoglio. Invece che tutelare la figlia adottiva e la moglie, le usa per scaricare su di loro tutta la sua frustrazione.

Maltratta la ragazza e fa prostituire la moglie, mentre con la sua scadente combriccola di amici altrettanto falliti, beve vino e gioca a carte; se perde, sarà la moglie a pagare con le sue prestazioni i debiti di gioco di questo decaduto monarca del regno dell’immondizia e della tristezza.

amaraStefano, divinamente calato nella parte sporco, grezzo, insensibile, maltratta la moglie Nadia davanti a noi, tanto che viene una voglia istintiva di salire sul palco e porre fine a quel disgustoso spettacolo così vero e realistico tra i due, che non può non far torcere le budella a chi come noi sta su quella bella poltroncina del pulito e confortevole teatro nel cuore della Garbatella che vide decenni or sono storie simili e che ormai, per fortuna, ha obliato.

Martina fa tenerezza, fa stringere il cuore con la sua menomazione che la costringe a zoppicare vistosamente con quei calzettoni, uno tirato su è l’altro giù che la rendono orribile insieme ai suoi vestiti sdruciti; un’ icona della povertà, della semplicità e della ingenua semplicità di una dolcissima e sfortunata ragazza.

Non dimentichiamoci Germana, l’ intensa e profonda figura femminile amica delle due donne, forse più fortunata perché pur condividendo un destino simile, almeno il marito pare essere migliore.

Ascolta, si confida, aiuta, coccola, sprona, difende e condivide la stessa vita, ma forse sta per essere baciata dalla fortuna, quella di vedersi assegnata una casa popolare. Ma questa è una guerra tra poveri, in cui le donne che hanno visto un barlume di speranza saranno ancora coinvolte da un’altra “amara” situazione… Come ne usciranno? Il Teatro Garbatella vi aspetta!

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