Arkan Al Sayed ha 26 anni ed è un architetto e interior designer di Gaza City. Fino a pochi mesi fa conduceva una vita professionale autonoma: dopo anni di studio e attività freelance, aveva da poco inaugurato il suo primo ufficio di progettazione.
L’inizio del conflitto il 7 ottobre 2023 ha interrotto bruscamente quel percorso. Nei giorni successivi, i bombardamenti hanno colpito prima lo studio professionale e poi la casa di famiglia. Arkan e sua madre sono rimasti feriti, estratti vivi dalle macerie.
Da quel momento, racconta, la loro vita è diventata una continua ricerca di sicurezza: tra ospedali, alloggi di fortuna, tende e spostamenti ripetuti, in un contesto dove rifugi stabili non esistono.
“Oggi viviamo in una tenda e tra i resti instabili della nostra casa. Non c’è acqua, non c’è elettricità, non ci sono cure mediche. I bambini disegnano bombe e funerali. È così che si cresce a Gaza.”
La vicenda di Arkan rappresenta una delle tante storie individuali che non trovano spazio nei bollettini ufficiali: la quotidianità di chi cerca di resistere e ricostruire la propria umanità in mezzo alla devastazione.
“Per noi, resistere significa non perdere la nostra umanità, anche quando tutto intorno è distrutto”, afferma.
Il suo racconto sottolinea ciò che spesso resta invisibile nel racconto mediatico dei conflitti: la vita dei sopravvissuti, fatta di memoria, dignità e speranza, nonostante tutto.
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