Era la notte del 27 dicembre 1998 quando, alle 3.06, un boato squarciò il silenzio di Roma. Nel quartiere Portuense, un palazzo in via Vigna Jacobini crollò improvvisamente, sbriciolandosi in pochi istanti. Balconi, muri, interi appartamenti finirono in un fiume di macerie.
Nel crollo persero la vita 27 persone, tra cui 6 bambini.
A distanza di 26 anni, quella tragedia resta una ferita aperta nella memoria della città. A ricordarla è Ferruccio Fumaselli, uno dei familiari delle vittime, che da allora porta avanti una lunga battaglia fatta di dolore, processi e ricerca di giustizia. Ventisei anni di lotte, di aule di tribunale, di domande che non smettono di chiedere risposte.
I bambini morti quella notte oggi sarebbero giovani adulti, con un futuro davanti, sogni, lavoro, famiglie forse già costruite. Invece il tempo si è fermato sotto quelle macerie.
Oggi, in via Vigna Jacobini, resta una lapide scolorita, spesso senza fiori. Un segno fragile, quasi invisibile, di una tragedia che rischia di essere dimenticata.
«Quello che resta – racconta Fumaselli – è la voglia di dire: “Ciao mamma, come stai?”. Avrei voluto farle trovare sotto l’albero tanti doni e un biglietto con una dedica piena d’amore».
Parole semplici, quotidiane, che raccontano più di qualsiasi atto giudiziario cosa significhi davvero perdere qualcuno. Perché dietro i numeri, dietro le sentenze, restano vite spezzate e legami che non smettono di esistere.
Ricordare il crollo di via Vigna Jacobini non è solo un dovere di memoria: è un atto di rispetto verso chi non c’è più e verso chi, da 26 anni, continua a chiedere che quella notte non venga archiviata come una semplice data del passato.
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