“Un romano a Roma” di e con Pietro Romano, e con Roberto Colavalle

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TEATROVID-19 Il teatro ai tempi del Corona (Verso la terza dose)

Teatro Anfitrione

Simpatico, burlone, affabile, geniale, un artista di altri tempi in grado di shakerare con perizia la vecchia comicità, aggiungendo uno stile personale di azzeccata e riuscita modernità.

Stasera Pietro darà vita, in questo caratteristico e storico teatro, alla sua esibizione; è il suo tributo alla romanità. Uno spettacolo che miscela e fonde tra loro la canzone romana, la comicità e la drammaturgia in un unico insieme.

Dopo essere stato accolto alla reception dalla gentile e sorridente Loredana Corrao, tuttofare ed artista del teatro, entro nella storica ed accogliente sala.

Si apre il sipario su una platea piena e Pietro entra intonando un brano romanesco a cappella con la sua voce piena, melodiosa e ben modulata; merita subito il primo caloroso applauso. Già dall’inizio fa uso della sua innata simpatia, espressività, mimica e gestualità divertente e volutamente esagerata, frutto di anni di esperienza artistica. L’accostamento con la prepotente presenza scenica di Benigni è inevitabile.

Il suo romanesco è quello dal sapore trasteverino, che riporta gli echi di un Paolo Panelli, di un Enrico Montesano dei tempi d’oro e di un Toni Ucci. Sia chiaro: Pietro ha una spiccata personalità; tutti questi miei accostamenti sono solo da considerarsi dei condimenti al suo eclettico e personale modo di recitare e di fare spettacolo. Intona poi un famoso brano di Joe Cocker, “You can leave your hat on”, per poi trasformarsi in un esilarante mimo “parlante”. Giocando con il pubblico, con divertentissime movenze cerca di mimare azioni e gesti atti a far indovinare quello che ha in mente ai presenti, come facevamo da bambini quando dovevamo far indovinare un titolo di un film ai nostri coetanei. Così pietanze, azioni, oggetti e personaggi prendono vita in un’atmosfera di grande allegria. Tutti cercano di indovinare le parole celate, dicendo le cose più assurde; intanto Pietro usa questo pretesto per improvvisare e divertire ancora il pubblico. Si cimenta poi in un brano che cantava Alberto Sordi, “E va e va”, poi “È bello ave’ ‘na donna dentro casa” di Aldo Fabrizi; un revival di brani storici della canzone romana.

un romano a romaL’ironia viene spezzata da un racconto fortemente drammatico e ricco di pathos che si chiude, alla fine del primo atto, con una canzone che ne sottolinea il tema e in cui ho percepito una somiglianza con lo stile di Renato Zero. Una vicenda di cronaca nera, che vede coinvolta tragicamente una famiglia romana. L’ interpretazione del monologo è stata fortissima, profonda e molto toccante. Un sublime tocco d’arte drammatica, che svela tutta la bravura di questo immenso artista.

Il secondo atto si apre con il brano “E mi pareva strano” che ricordo di aver visto interpretato dagli storici Ciccio e Franco. Le movenze di Toto’ e Macario aleggiano nel suo balletto. Poi la morte di un amico diviene una deliziosa scenetta a due con il maestro di musica che gli fa da colonna sonora per tutta l’esibizione. Con il suo linguaggio forbito, il maestro Colavalle mette in difficoltà il romanaccio che sta interpretando il nostro Pietro, dando origine ad uno sketch carico di battute nate da equivoci e fraintendimenti. Esilarante, una scuola del miglior avanspettacolo. La lettura del telegramma di cordoglio inviato alla vedova dell’amico è un guazzabuglio di stafalcioni, che riporta alla mente la famosa scena della lettera dettata da Toto’ a Peppino. Poi Pietro fa un tributo a Raffaella Carrà, seppur non sia un personaggio strettamente legato a Roma, come poi a fine spettacolo ha ammesso lo stesso Pietro. Sono d’accordo con quanto spiegava: questa icona sdoganata ed internazionale dello spettacolo è talmente entrata nel cuore di tutti da essere di casa ovunque. Un’artista scomparsa che rappresenta la massima espressione dell’arte nel suo campo e che Pietro, con una parrucca bionda, ha voluto emulare per omaggiarla con simpatia, delicatezza e profondo rispetto. Sono sicuro che Raffaella avrebbe apprezzato…

Raffaella cerca il suo Enzo Paolo Turchi tra il pubblico e, tra le risate di tutti, mette in mezzo un povero spettatore facendogli indossare un parruccone da cherubino ed una tuta “anticovid”, per poi ballare con lui il “Tuca Tuca”. La sala esplode in fragorose risate. Poi è la volta del brano partenopeo “Malafemmina”. Anche qui le doti canore di questo artista spiccano pregevolmente.

Bella, toccante e struggente è la riproposizione de “A livella” di Totò. Complici un riuscito e suggestivo gioco di luci e un costume bipartito per poter impersonare simultaneamente i due personaggi del dramma: il marchese e il netturbino. Un tocco da maestro. Per tutta la serata, come conferma Pietro, alla fine nel suo spettacolo c’è un palese omaggio allo scomparso Gigi Proietti. Mi immagino nell’aldilà Gigi insieme alla Carrà, assorti a godersi compiaciuti e divertiti questi tributi. Con l’ausilio di basi registrate Pietro è accompagnato musicalmente dal maestro Roberto Colavalle. Roberto ha un curriculum di tutto rispetto: è stato assistente musicale del maestro Armando Trovajoli, collaboratore del dottor Pietro Garinei e ha lavorato al teatro Sistina. Il finale è ancora più emozionante, a sorpresa sale sul palco il numeroso coro de “La Schola Poliphonica Romana” di cui il nostro maestro è stato responsabile. Tutti insieme, Pietro, Roberto e il coro eseguono un brano finale emozionante, che ci riporta al tema della serata: la nostra Roma.

Che altro dire di Pietro? Vederlo a teatro mi risveglia ricordi sopiti dell’infanzia: il suo romanesco attinge al trasteverino che utilizzava ancora mio nonno con mio padre e che ormai credo sia andato completamente perduto. Vocaboli storpiati, che nel romanesco di oggi non ci sono più, quelli dei film di Fabrizi, Manfredi per capirsi… Pietro è il meritevole custode di un museo della romanità, uno dei pochi rimasti, uno dei grandi rimasti.

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